Antartide: viaggio al sesto continente. Il rientro in Italia

L’Antartide non ha voluto lasciarci andare senza un ultimo regalo.

Durante i corsi di addestramento ci avevano detto che questo è il posto più arido del mondo, perché le precipitazioni sono di pochi millimetri l’anno, e non nevica quasi mai.

Ma il 18 sera, il giorno prima di ripartire per la Nuova Zelanda, il cielo si è fatto grigio e fiocchi dapprima piccoli e poi più grandi hanno cominciato a cadere dal cielo, imbiancando la Base dedicata a Mario Zucchelli.

Non ci ha fatto davvero mancare nulla, l’Antartide. Appena una settimana prima, mentre ci trovavamo a Base Concordia, dove quasi mai soffia il vento, avevamo visto l’anemometro segnare quasi 35 chilometri orari, probabilmente il record dell’anno.

Quel giorno avevo capito cosa significhi veramente Antartide, cosa vuol dire veramente avere freddo e sentirsi insignificanti: anche le tute super resistenti e il gatto delle nevi e la stessa base, mi sono apparse un semplice e fragile rifugio, se non in balia degli elementi, certo in equilibrio precario con essi.

Dunque, l’Antartide ci ha fatto molti regali inaspettati, ci ha donato esperienze che si devono trasformare in riflessioni, e poi – per chi volesse – in azioni, in tentativi di trasferire agli altri la sensazione di rispetto e di necessità di tutela di un Pianeta infinitamente più grande e potente dell’Uomo.

Ma l’Antartide ci fa portare a casa anche altre emozioni: la riscoperta di rapporti umani genuini, di situazioni e relazioni dove furbi e furbetti non hanno spazio e dove la collaborazione il rispetto reciproco ancora vivono, mentre arroganza e prevaricazione sono condannate senza mezzi termini.

Il contrario dell’Italia di oggi!

Dunque, viva l’Antartide, che per un mese mi ha fatto rivivere un mondo migliore.

Ancora possibile.

Forse anche in Italia.

(per altre info sulla XXIX Spedizione Italiana in Antartide, visita anche i siti www.enea.it e www.pnra.it)

 

Viaggio al sesto continente: Base Concordia

L’ultima tratta di questo lungo viaggio ci porta nel cuore vero dell’Antartide, a 3.300 metri di quota. Ci arriviamo dopo un volo di quattro ore a bordo di un DC-3 del 1942, completamente riallestito e adattato per operare a temperature fino a -54°, su piste di neve o di ghiaccio.

 

Già dopo mezzora di volo ci si rende conto che il paesaggio è cambiato completamente. Sorvolate alcune formazioni della Catena Antartica, il bianco comincia a stendersi fino all’orizzonte.

Rimettiamo indietro gli orologi di cinque ore e ci riportiamo a +sette rispetto all’ora italiana. Poi, comincia la discesa. Per modo di dire, visto che il Basler (come viene chiamato ora il vecchio DC-3) non è pressurizzato e abbiamo volato sempre ad una quota di circa 4.000 metri. È tutto il viaggio che aspetto il momento di sentire sulla mia pelle cosa significhi stare a -50, sul pianoro antartico, per confrontarmi veramente con il sesto continente.

L’impatto è forte: tra l’altro, siamo arrivati in una delle rare giornate di vento, e il vento aumenta la sensazione del freddo portando il valore percepito a -60°.

La discesa dall’aereo, però, è rapida e solo pochi passi ci separano dall’ingresso della Base. Non c’è il tempo di rendersi veramente conto della situazione.

Ben diverso è quando, dopo un paio di ore, ci avventuriamo in una passeggiata di 500 metri, fino alle tende che vengono usate per accogliere il personale in sovrannumero rispetto alle capacità interne di Concordia, che può ospitare al massimo una trentina di persone.

Appena usciti dalla base il vento ci assale e fa penetrare aria fredda in ogni spiraglio del corpo che non sia stato accuratamente riparato: 

basta una fessura tra il guanto e la giacca per sentire il polso indolenzirsi, o uno spiraglio tra la maschera che ci copre gli occhi e il pile con il quale ci avvolgiamo orecchie naso e bocca, per sentire l’aggressione del freddo sulla pelle.

Il sole, alto una quindicina di gradi sull’orizzonte, non fa sentire per niente il suo calore. Ma la luce che emana è spettacolare e, grazie al vento, che solleva cristalli di ghiaccio, appare circondato da un alone luminoso.

Dopo cinque minuti mi incominciano a far male le dita e solo una sosta nelle tende riscaldate evita che il dolore aumenti. Ma comincio a preoccuparmi dei 500 metri da fare per tornare in Base. Al freddo si aggiunge il fiato corto, provocato dalla leggera ipossia, la carenza di ossigeno legata alla quota.

E così i 500 metri sembrano 600, 700, sempre di più, e ti chiedi se fermati a riprendere fiato patendo il freddo o continuare a camminare, respirando però come se stessi partecipando ad una maratona.